Oggi
parliamo del romanzo edito da Ciesse Edizioni
“Fortuna, il buco delle vite” di Jolanda Buccella, giovane esordiente,
studentessa di relazioni internazionali a Milano dove si è trasferita da poco .
1)
Cara Jolanda, raccontaci il tuo approccio con il mondo dei
libri, e le motivazioni che ti hanno spinta a
scegliere di scrivere.
2)
Ci sono degli autori a cui ti ispiri
e dei libri che preferisci in modo particolare?
3)
Cosa ami della letteratura classica
e cosa della contemporanea? E a quale delle due ti senti più legata?
4)
Cos’è per te il tuo libro ?
La forza emotiva, un percorso di
vita travagliato, questo forse è quanto di me ho donato a Fortuna.
Il resto è fantasia per quanto riguarda la
storia, ma dato reale per la Storia. Il libro l’ho scritto in un arco di tempo
di cinque anni, che mi sono serviti anche per documentarmi sulle vicende
politiche del Ruanda, che per altro nemmeno io avrei conosciuto se non le
avessi incontrate per i miei studi di relazioni internazionali.
Gli argomenti che tratto, i temi così
forti mi hanno sempre interessato molto. Sono una donna, e come tale sono
attenta al nostro ruolo e ai nostri problemi nella società. La volenza che
Fortuna subisce , le sue malattie , sono tutti argomenti che sento molto vicini
a me.
5) Scrivere per te è un mestiere? Se per ora non lo è,
vorresti che lo diventasse?
No, non è un mestiere ma mi
piacerebbe che lo diventasse. Per ora è una passione, ma magari potrei riuscire
a realizzare questo sogno
6)
Cosa pensi del Mercato Editoriale
odierno?
7)
Progetti per il futuro?
Si dice che si viva una volta sola.
Non è vero.
Bisogna solo avere la possibilità di
ricominciare.
E la forza di ricominciare.
Fortuna ha entrambe e così riesce a
moltiplicare la sua vita, vivendone tre nello spazio di una.
Tre passi nel senso dantesco del
termine, ovvero tre momenti critici che impongono alla protagonista delle
svolte radicali che le danno la possibilità di cominciare una nuova vita ogni
volta, cambiando addirittura il suo nome.
J. Rizzutelli è una bambina che per la sua malformazione alla spina dorsale
viene rifiutata dalla madre, forse troppo giovane e inesperta per accogliere
una responsabilità simile, forse semplicemente troppo egoista e perfezionista.
J . viene allevata dalla nonna Umberta come da una seconda madre, e per questo
motivo la sua morte manda in depressione J. che comincia a rifiutare il cibo
nella speranza di ottenere attenzione da parte dei genitori. Ad un passo
dall’abbandonarsi all’oblio però si impedisce per orgoglio di cedere e si
riprende. Ma seguono anni duri, in cui i problemi con lo studio si sommano ad
altri problemi con il cibo, che ora J. vede come il suo migliore amico. E
quando le arriva notizia che la sua perfetta gemella Giovanna che nel frattempo
ha fatto fortuna si sta per sposare per J. è il colpo di grazia, e decide di
scappare di casa.
A Roma giunge con il nome di J, ma
presto diventerà Piccoletta, la barbona che chiede l’elemosina insieme a Benny,
l’uomo che la aiuta nei primi tempi di questa sua nuova e difficile vita,
portandola con sé nel vecchio edificio scalcinato dove trascina la propria
esistenza una comunità di clochard .
Benny è un amico per Piccoletta,
fino a quando la notte di Natale, ubriaco, non la violenta.
Piccoletta cambia completamente da
allora, il colpo è troppo duro, e lei non sembra capace di poter perdonare e
fidarsi ancora di qualcuno.
Per questo si mostra scontrosa con
quel giovane pittore dalla pelle scura che in piazza Navona la aiuta evitandole
una brutta caduta . Ci metterà parecchio tempo il giovane pittore, un pediatra
ruandese in esilio dal suo paese, a
farsi accettare da Piccoletta e a scardinare pian piano le sue difese.
Ed è lui, Nadir, che salva Piccoletta , in fin di vita,
dall’incendio che rade al suolo l’edificio dove vive la comunità di clochard, e
la cura giorno per giorno fino a guarire le sue ferite.
È
qui, con l’amore di Nadir, che inizia la vita di Fortuna, l’ultima vita,
che la vede affiancare il compagno nel suo difficile ritorno in patria proprio
all’alba del genocidio che dal 6 aprile al 17 luglio 1994 vede il massacro di
800.000 persone di etnia tutsi e hutu moderati sotto lo sguardo cieco del
mondo.
Fortuna affianca Nadir nel suo
lavoro all’ospedale pediatrico, e nel suo impegno per salvare i tutsi
sopravvissuti alle incursioni dei miliziani.
E lei, che ha sempre dovuto lottare
per vivere, alla fine della sua terza vita si ritrova a lottare per la vita di
qualcun altro rifiutandosi di dire ai miliziani che l’hanno catturata i nomi
degli hutu traditori, a lottare per la
vita di quei bambini dell’ospedale che negli ultimi giorni del massacro vengono
portati in salvo oltre frontiera,
Ecco dipanarsi in questo romanzo che
ha tutte le carte in regola per essere definito un vero e proprio Bildungsroman , una vicenda che ha qualcosa dell’epica
moderna , con una struttura circolare che amplia di senso la situazione
iniziale.
J . inizia la sua vita in un
continuo passaggio dalla casa all’ospedale per una serie di interventi a causa
della sua malformazione che la rende una bambina fragile ma con un’immensa
voglia di vivere .
Fortuna vive la sua vita, la sua
terza vita, in un ospedale, non più però come fragile farfalla, ma come solida
roccia per quei bambini sopravvissuti al genocidio, a cui dona la stessa voglia di vivere che la
caratterizzava nell’infanzia.
Quando alla fine giunge in Ruanda,
Fortuna non è più la J. fragile e malata della sua adolescenza, che odia la
madre per il suo rifiuto, e nemmeno la Piccoletta ferita dalla violenza di
Benny.
È una donna guarita dall’amore, che
ha imparato cosa significhi la sofferenza, ma anche come sia dolce il perdono.
Ha imparato a guardare una realtà
come quella del genocidio del Ruanda, ad
ascoltare i racconti dei sopravvissuti, senza girare le spalle per
paura, ma accogliendoli in sé dimenticando le proprie sofferenze per alleviare
quelle altrui.
Ha imparato a vivere.
Mi tornano in mente dei versi di
Nazim Hikmet:
Non vivere su questa terra come un inquilino
O come un villeggiante nella natura.
Vivi su questa terra come se fosse la casa di tuo padre.
[…]
Che i beni della terra ti diano gioia,
che l’ombra e la luce ti diano la gioia,
che le quattro stagioni ti diano la gioia,
ma che prima di tutto,
l’uomo ti dia a piene mani la gioia.
Credo che il grande messaggio di
Fortuna sia quello di aver vissuto davvero questi versi.